SAN RICCARDO
PAMPURI
A cura
di Patrizia Solari
In questo numero della rivista resteremo nel nostro secolo, per incontrare san
Riccardo Pampuri, del quale il 2 agosto si ricorderà il centenario della
nascita. Dice don Angelo Beretta, parroco di Trivolzio, un paese in provincia
di Pavia: "A Trivolzio stanno succedendo cose inimmaginabili (...) Da tutta
Italia, e non solo dall'Italia, arrivano pellegrini per incontrarsi con S. Riccardo.
(...) Alcuni che capitano per caso a Trivolzio, al sabato e alla domenica, vedendo
tanta gente, domandano: 'Che festa è oggi?' e noi non possiamo che rispondere:
'Qui è sempre festa, perché abbiamo nella nostra Chiesa un Santo,
un Santo che vuole bene alla gente e che intercede per noi e per tutti quelli
che lo invocano presso il Signore'. Dio ha scelto S.Riccardo per incontrarsi
con tanta gente."
1) Riprendiamo le parole di Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione
di Riccardo Pampuri, il 4 ottobre 1981 (la canonizzazione avvenne il 1. novembre
del 1989): "è una figura straordinaria, vicina a noi nel tempo,
ma più vicina ancora ai nostri problemi ed alla nostra sensibilità.
Noi ammiriamo in Erminio Filippo, diventato nell'ordine Fra Riccardo Pampuri,
il giovane laico cristiano, impegnato a rendere testimonianza nell'ambiente
studentesco (...); il dinamico medico, animato da una intensa e concreta carità
verso i malati e i poveri, nei quali scorge il volto del Cristo sofferente.
Egli ha realizzato letteralmente le parole, scritte alla sorella suora, quando
era medico condotto:'Prega affinché la superbia, l'egoismo e qualsiasi
mala passione non abbiano ad impedirmi di vedere sempre Gesù sofferente
nei miei malati, Lui curare, Lui confortare."
Erminio nacque il 2 agosto del 1897 a Trivolzio, ultimo di undici figli. I genitori,
Angiolina e Antonio, gestivano una modesta osteria di paese. "All'età
di appena tre anni Erminio rimase orfano della mamma e venne condotto nella
contrada di Torrino, dove, sotto la vigilante cura della zia materna Maria Campari,
da lui considerata sempre come una madre, crebbe e ricevette l'educazione cristiana."
La famiglia Campari, dove Erminio fu accolto, era composta dal nonno, da un
prozio, e dagli zii Carlo e Maria. Lo zio era medico e terziario francescano
ed ebbe un ruolo molto importante nell'affermarsi della vocazione umana e professionale
di Erminio. A undici anni il ragazzo si trasferisce a Milano, presso la famiglia
paterna, per frequentare il Ginnasio Manzoni, ma "non è nel suo
ambiente di raccoglimento: è stordito e, uccellino tremebondo, nella
frastornata città e nella numerosa e rumorosa famiglia paterna, riesce
a stento a superare la classe." Così ritorna presso gli zii di Torrino
e frequenta il Collegio S. Agostino a Pavia. Terminato il liceo, inizia gli
studi di medicina, sostenuto dallo zio Carlo e, entrando nel mondo universitario,
inizia la sua esperienza e il suo impegno nel "Circolo universitario Severino
Boezio", fondato nel 1884 e precursore dell'Azione Cattolica. Dopo aver
frequentato regolarmente il primo anno di medicina "non poté concludere
il secondo anno perché il primo aprile 1917 fu arruolato, dapprima soldato
semplice e, dopo sei mesi col grado di sergente maggiore, aiutante medico in
zona di guerra, all'ospedaletto da campo a Ruda Villa Vicentina."
È di questo periodo l'episodio che gli frutterà una medaglia di
bronzo, la nomina a sergente, una licenza premio e una modesta pensione, ma
anche una pleurite che segnerà la sua salute per il resto della sua breve
vita. Con la disfatta di Caporetto l'esercito italiano si era ritirato caoticamente
fino al Piave e gli ufficiali medici della compagnia di Pampuri avevano levato
il campo, abbandonando tutto il materiale sanitario. Erminio, rischiando la
vita, carica tutte le preziose attrezzature ancora utili per la cura dei malati
su un carretto, facendolo trainare da una mucca, e sotto la pioggia battente
e il fuoco dell'artiglieria nemica, dopo una marcia di due giorni riesce a raggiungere
i compagni che già lo davano per disperso. Chi condivise con lui la vita
militare testimonia la sua grande carità verso i soldati infermi e in
particolare quelli più gravemente colpiti. D'altra parte si distingueva
per la sua dignitosa riservatezza, ma anche per le parole che sapeva rivolgere
ai commilitoni, i quali lo tenevano in grande considerazione. Alla fine della
guerra termina gli studi e contemporaneamente entra nel Terz'Ordine francescano.
Questo fatto indica una sua caratteristica costante: la ricerca di un ambito
che lo sostenesse nel compito della fedeltà a Cristo e alla Chiesa. La
sua fedeltà ai gesti quotidiani di preghiera suscitava la meraviglia
di chi gli stava vicino. E lui rispondeva: "La mia lampada è piccola!
bisogna che l'alimenti continuamente se non voglio restare al buio. Non servirebbe
neanche un bel lampadario, se non vi arrivasse la corrente."
Dal 1921 al 1927 è medico nella condotta di Morimondo, a quindici chilometri
da Torrino. E qui citiamo un altro testo che ci presenta la vita di questo Santo
2) : "Secondo la loro testimonianza, gli abitanti di Morimondo si accorgono
subito della diversità del nuovo dottore rispetto ai precedenti: innanzitutto
va in chiesa, mentre all'epoca è forte nella classe medica la componente
anticlericale o comunque di indifferenza alla religione. In secondo luogo, colpisce
la modestia della vita del giovane medico: è un'autorità del posto,
potrebbe vantarsi della sua cultura superiore, della sua professione; invece
non tiene le distanze con la gente del luogo, parla anche in dialetto, accorre
a tutte le chiamate, ha grande attenzione verso tutti i suoi pazienti, non facendo
differenza se sono ricchi o poveri, spesso non si fa pagare e in qualche caso
provvede personalmente alle spese per la farmacia. Giuseppina Pedretti, che
abita sotto il suo appartamento, riassume in modo conciso e quasi umoristico
l'impressione della gente: "Insomma era una istituzione di carità,
più che un medico." Innumerevoli sono gli episodi che raccontano
il suo atteggiamento di fronte ai malati e ai bisognosi. Quando periodicamente
torna dagli zii a Torrino, essi lo riforniscono di frutta, farina, vino, uova
e la zia raccomanda: "Non lasciategli mancar niente, tanto è roba
che va ai poveri". E lo stesso succedeva con le copertine/coperte, la biancheria,
i vestiti, le scarpe. Se arrivava con delle scarpe scalcagnate, perché
le aveva scambiate con qualcuno, Erminio diceva: "lo viaggio in biroccio,
gli altri vanno a piedi e di suole ne consumano più di me." "Era
giovane: perciò i primi a circondarlo furono i giovani, per i quali fondò
un eccellente Circolo di Azione Cattolica. (...) E gli uomini, attratti dal
miglioramento che vedevano operarsi nei loro figli, accorrevano a pregare il
dottore che si interessasse anche di loro: sorsero così giornate di Ritiro,
convegni di preghiera, gruppi di Vangelo, Conferenze di S. Vincenzo, Commissione
Missionaria e perfino un fiorente Corpo bandistico." La religiosità
di Erminio non aveva nulla di intimistico: la sua era una presenza attiva, costantemente
protesa verso opere di educazione e di carità. Ma questa vita mina la
salute di Erminio, già intaccata dalla pleurite contratta durante la
guerra. Attorno al 1927 si sente troppo debole per continuare a svolgere la
sua missione e, grazie ad una profonda amicizia sviluppata in quegli anni con
don Riccardo Beretta, segretario dell'Ufficio Missionario di Milano, può
trascorrere un periodo di riposo in una Casa tenuta dai Fatebenefratelli e conoscere
così quest'Ordine Ospedaliero 3). La sua vocazione definitiva si va sempre
più delineando. E quando, malgrado la salute precaria viene accettato
nell'Ordine, il padre provinciale "bandendo ogni perplessità esclama:
"Dovesse il giovane Pampuri rimanere anche un sol giorno membro effettivo
del nostro Ordine, sia il benvenuto: dopo esserci stato in terra, motivo di
edificazione, ci sarà in cielo anche angelo di protezione." (...)
il 24 ottobre 1928 emise i sacri voti. Tre giorni prima dei voti, ricevette
l'abito dei novizi col nome di Frà Riccardo', in ricordo affettuoso e
riconoscente per don Riccardo Beretta." Erminio Frà Riccardo aveva
30 anni. Resterà nell'ordine solo tre anni, perché morirà
il 1 maggio del 1930.
Ma attingiamo ancora al bel testo di Laura Cioni, di cui suggeriamola lettura:
"Il giovane studente di Pavia che si dedica all'apostolato tra i compagni
e all'assistenza dei poveri, il laureando che cerca un sostegno spirituale nell'appartenenza
al Terz'Ordine francescano, il medico che, mentre svolge con cura attenta la
sua professione, non cessa mai di chiedere a Dio una più profonda partecipazione
alla sua opera di salvezza, tutto questo confluisce in modo inatteso e intenso
nell'adesione al Carisma dei Fatebenefratelli. Qui Erminio trova la stabilità
spirituale nell'obbedienza, nella castità, nella povertà abbracciate
per amore di Cristo. Ma il quarto voto, tipico dell'Ordine fondato da san Giovanni
di Dio nel XVI secolo, quello dell'ospitalità, cioè dell'assistenza
e della cura dei malati, appare tagliato su misura per il "santo dottorino".
L'ospitalità data all'altra persona, bisognosa di aiuto fisico o spirituale,
è il tratto comune alle varie tappe della vita di Erminio e si condensa,
per così dire, nella concretezza della vita comunitaria dei Fatebenefratelli."
Una testimonianza di quel periodo: "egli stava scopertine/copando sotto il portico
del cortile dinanzi alla chiesa. Da una finestra dei corridoio interno, vicino
alla direzione, uno dei medici della Casa mi fermò e mi disse: "Suor
Cherubina, ma quello è matto? Ha la laurea di dottore ed è lì
con in mano la scopertine/copa a scopertine/copare!?. lo gli risposi: 'Sarà pazzo di amor
di Dio." Ed egli: "Ma io dico che è pazzo! Non capisco".
Siccome il medico parlava a voce alta, fra Riccardo sentì le sue parole,
e, rivolto a lui, gli disse con voce calma: "Tutto quello che si fa per
Iddio, è tutto grande, sia colla scopertine/copa, che colla laurea di medico!"
Gli orari di assistenza ai malati, anche a causa della povertà materiale,
vanno dalle cinque del mattino alle nove di sera, con turni faticosissimi, ma
fra Riccardo osserva la regola senza nessuna eccezione, cosciente che nella
volontà dei Superiori si rivela la volontà del Signore. Gli vengono
poi affidati vari incarichi: quello di preparare gli altri novizi all'esame
per ottenere il certificato di infermiere e quello dell'ambulatorio dentistico
annesso all'ospedale di S.Orsola. "Le sue lezioni di anatomia si tramutano
spesso, tra lo stupore dei suoi giovani discepoli, in lezioni di più
ampio respiro, perché fra Riccardo non parla mai del corpo umano se non
come creatura che reca in sé l'impronta della perfezione di Dio. Non
sono solo informazioni tecniche quelle che egli fornisce." L'incarico dell'ambulatorio
gli costerà una grossa prova di obbedienza, perché è costretto
a restare a contatto con il pubblico, cosa che lui avrebbe voluto evitare nel
suo nuovo stato religioso. A partire dalla primavera del 1929 la sua salute
comincia a declinare e attraversa anche un periodo di buio interiore, dove lo
scoraggiamento e la malinconia lo tentano. Dopo un breve soggiorno a Gorizia,
riprende il suo incarico a Brescia, ma ai primi di novembre ha una seconda emottisi.
Passa allora un mese a Torrino, dagli zii, poi torna a Brescia nel gennaio del
1930, ma non riesce più a impegnarsi, se non saltuariamente e con grandi
sacrifici. Il 27 aprile viene trasportato a Milano, in una casa dell'Ordine,
in modo che la zia possa stargli vicino, insieme ai parenti più stretti.
Riceve varie visite, anche dai suoi pazienti di Morimondo. Lui stesso fa chiamare
i suoi antichi compagni di Università, in particolare quelli che sapeva
lontani da Dio. Trascorre tranquillo le ultime ore della sua vita, tenendo in
ciascuna mano un crocifisso: uno donatogli dalla sorella suor Longina, con la
quale aveva intrattenuto un lungo e intenso scambio epistolare, l'altro dal
suo padre Provinciale.
La sua morte segna l'inizio di un progressivo movimento di simpatia, di ammirazione
e di devozione che prelude a un culto poi ratificato dalla Chiesa. San Riccardo
viene pregato per chiedere protezione, grazie, guarigioni. E molte avvengono.
Vogliamo concludere con alcune osservazioni tratte da un testo di don Luigi
Giussani, che ci permette di riflettere in maniera adeguata su quest'ultimo
tema 4). "Si può definire il miracolo come un avvenimento, quindi
un fatto sperimentabile, attraverso cui Dio costringe l'uomo a badare a Lui,
ai valori di cui vuole renderlo partecipe; attraverso cui Dio richiama l'uomo
perché questo si accorga della Sua Realtà. È, cioè,
un modo con cui Egli impone la sua Presenza. Da questo punto di vista tutte
le cose sono miracolo: noi non ce ne accorgiamo perché viviamo come fuori
dalla trama originale che ci costituisce, tendiamo a estromettere noi stessi
dal nesso originario con la realtà oggettiva. (...) Quanto più
un uomo è consapevole e vivido nella sensibilità del suo nesso
con l'Altro che continuamente lo crea, tanto più tutto tende a diventare
miracolo per lui. (...) Vi sono poi momenti particolari in cui Dio straordinariamente
richiama il singolo ad attendere alla sua presenza, a togliersi dalla distrazione.
(...) come un accento particolare degli avvenimenti che richiama inesorabilmente
a Dio. Può essere un'improvvisa buona notizia, o un dolore imprevisto,
a costituire un miracolo per il singolo: è un potente richiamo per l'individuo,
mentre per gli altri è interpretabile come casualità!" E
c'è poi un terzo tipo di miracolo. "Là dove Dio interviene
sulla sua creazione con un fatto oggettivamente inspiegabile a qualunque disanima,
a qualunque procedimento indagativo della ragione. È il caso in cui Dio
vuole richiamare non solo il singolo, ma la collettività alla Sua presenza,
offrendo all'edificazione della comunità religiosa fattori oggettivi
documentabili per tutti."